miércoles, marzo 20, 2019

Idillio e patema nell’ Infinito leopardiano


Idillio e patema nell’ Infinito leopardiano
ALFREDO LUZI
Università di Macerata

       
       Ugolino Panichi, Monumento a Giacomo Leopardi, 1898, Recanati: photo by Carlo Raso. fonte Flickr

Nel volume L’atto della lettura1, Wolfgang Iser, studioso illustre della scuola di Costanza, propone una serie di applicazioni della sua teoria della ricezione che si rifanno al metodo della Gestalt, in particolare per quanto riguarda la dinamica tra primo piano e sfondo, essendo il primo reso visibile dalla rete di corrispondenze di fondo.
Utilizzando questa metodologia nell’analisi del testo più noto di Leopardi, il lettore registra nell’Infinito leopardiano un movimento dialettico, un sistema oppositivo tra attrazione e repulsione, tra idillio e paura, tra piacere e sofferenza, in cui i termini dell’isotopia positiva sembrano contenere i nuclei della isotopia negativa.
La testualità del componimento si presenta come un processo lirico-meditativo di tipo sequenziale , a struttura circolare, che parte da una dimensione sentimentale per accedere all’immaginazione, procede verso una fase ermeneutica della propria esperienza individuale e storica per richiudersi nella definizione di un piacere sensitivo-intellettuale.Da una parte dunque il commercio coi sensi fondato sul principio di piacere, spinge l’io alla ricerca della soddisfazione del desiderio, dall’altra il principio di realtà, legato alla riflessione razionale, ne mette in evidenza l’illusorietà e apporta correzioni in negativo alla passione verso la libertà dell’immaginario e verso il superamento dei limiti del contingente.
Ciò deriva dal fatto che in Leopardi la poesia è sempre sintesi di meditazione e canto, unità vivente di idea e parola.
Ma la significazione autonoma dell’Infinito acquista un suo plusvalore se contestualizzata alla teoria poetica elaborata nel fitto reticolato delle riflessioni dello Zibaldone .
Uno dei nuclei problematici più dibattuti attiene proprio al rapporto tra poesia e filosofia. Pur essendo un convinto materialista, Leopardi rifiuta il procedimento epistemologico del razionalismo analitico-empirico e tende invece ad una forma di conoscenza naturale, in cui le percezioni sensoriali e l’intelletto svolgano ognuno il proprio ruolo e collaborino unitariamente a una sintesi gnoseologica del mondo, secondo la lezione di Condillac e di Destutt de Tracy . In questa prospettiva, in cui è inclusa una attitudine linguistica alla genesi della conoscenza, Leopardi concepisce la poesia come forma della filosofia, unità vivente di idea e parola, sintesi di meditazione e canto.
Nella nota 1651 dello Zibaldone egli scrive:

Quanto l’immaginazione contribuisca alla filosofia ( ch’è pur sua nemica ), e quanto sia vero che il gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere un gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere da lui professato, e viceversa il filosofo, gran poeta, osserviamo.2

Tale opinione è ribadita, nell’ottobre 1821, quando, nelle note 1834-1836, Leopardi difende il valore dell’esperienza estetica come elemento portante della funzione epistemologica della ragione in rapporto alla natura:

Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, di illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto o sentito i poeti, non può assolutamente essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa [....] Non già perché il cuore e la fantasia dicano sovente più vero della fredda ragione, come si afferma, nel che non entro a discorrere, ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo. L’analisi delle idee, dell’uomo, del sistema universale degli esseri, deve necessariamente cadere in grandissima e principalissima parte, sulla immaginazione sulle illusioni naturali, sul bello, sulle passioni, su tutto ciò che v’ha di poetico nell’intero sistema della natura.
[...] La più fredda ragione benché mortal nemica della natura, non ha altro fondamento né principio, altro soggetto di meditazione speculazione ed esercizio che la natura. Chi non conosce la natura, non sa nulla, e non può ragionare, per ragionevole ch’egli sia. Ora colui che ignora il poetico della natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi non conosce assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo di essere.3

Contro l’utopia totalizzante del razionalismo il poeta oppone l’esigenza di tener conto della complessità sistemica della ragione tesa a contenere nella sua attività teoretica il caos vitalistico che caratterizza la dimensione dell’esistente.
Sulla base di un atteggiamento che non rinuncia ad un materialismo di fondo, anzi lo rafforza nella critica ad ogni ipotesi di geometria razionalistica e schematizzante della vivente contraddittorietà del reale, si evince che il titolo, sintesi perfetta dei contenuti poetici e delle modalità di accesso ad una avventura intellettuale per via analogica, ( e perciò strettamente connesso con la sintassi del pensiero poetante ), non contiene valori mistici e metafisici in prospettiva religiosa, come ipostasi di una realtà altra, accettata per dottrina e raggiunta con una sorta di itinerario a Dio.
Il processo dinamico del superamento dei limiti gnoseologici attraverso un sistema basato sulla introspezione è spiegato nella nota 171(luglio 1820 ) dello Zibaldone , nella quale è configurata la struttura portante dell’idillio composto nel 1819:

La cagione è la stessa , cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec; attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano.4

La percezione dell’infinito attiene invece al campo culturale della vaghezza, della non misurabilità, dell’incapacità dell’uomo di sottoporre al controllo della propria ragione tutti gli eventi esistenziali ed emozionali. Infinito quindi come letteralmente ‘non-finito’, indeterminato, con un accento particolare sulla ineffabilità, cioè sui limiti del linguaggio umano che non sa esprimere questo concetto se non usando un termine al negativo.
Nelle note 179-180 dello Zibaldone , il tema dell’infinito verrà collegato alla tensione dell’uomo verso il piacere e nel contempo all’idea del nulla:

L’infinità della inclinazione dell’uomo al piacere è una infinità materiale e non se ne può dedur nulla di grande o d’infinito in favore dell’anima umana.[...] Quindi nulla si può dedurre in questo particolare dalla inclinazione dell’uomo all’infinito, e dal sentimento della nullità delle cose...5

Ciò che colpisce a prima vista, nel testo leopardiano, è quello che potremmo chiamare l’“impulso insiemistico” di Leopardi.
In 15 versi egli riassume tutta una processualità che parte da una abitudine affettiva ( “Sempre caro mi fu...” ) per giungere ad una conclusione in cui emotività e gnoseologia coincidono ( e il naufragar m’è dolce in questo mare ), sorretta da due isotopie di base: quella del tempo e quella dello spazio. Alla prima appartengono i lemmi: “Sempre, fu, eterno, morte stagioni, presente e viva”; alla seconda :” ermo colle, ultimo orizzonte, interminati spazi, infinito silenzio, questa immensità, questo mare”. E non a caso nel testo sono presenti 6 aggettivi dimostrativi di vicinanza ‘questo’; e 2 aggettivi dimostrativi di lontananza ‘quello’, che hanno una precisa funzione spaziale perché indicano il rapporto tra l’io del poeta e lo spazio che lo circonda.
Da questa prima analisi risulta dunque che l’asse strutturale su cui si regge L’infinito è quello dello spazio e del tempo, categorie che costituiscono il nucleo ispirativo della poesia.
Nel 1780 E. Kant aveva pubblicato La critica della ragion pura. La seconda edizione è del 1797. In Italia circolò la traduzione latina di Gottlob Born (1796 ). Nella prima parte dell’opera intitolata Estetica trascendentale Kant sostiene che “vi sono due forme pure di intuizione sensibile, come princìpi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo”6. E sono queste a permetterci di definire i caratteri di un oggetto, indipendentemente dall’esperienza sensibile, perché assumono la struttura della forme con le quali conosciamo l’oggetto stesso. Le teorie kantiane ebbero un grande successo in tutta la cultura europea del primo ottocento e condizionarono la gnoseologia del secolo, almeno fino ad Hegel.
Leopardi, a partire dal 16 aprile 1821, cita nello Zibaldone Kant, collocandolo però tra quei pensatori della ‘dottrina immateriale’ che non hanno portato nessuna profonda novità nella filosofia e, nello stesso tempo, contestando il suo sistema di pensiero per eccesso di metafisica.
Sul piano concettuale egli conferma l’impostazione kantiana, privilegiando le categorie del tempo e dello spazio e collocando in esse tutto il procedimento gnoseologico che parte da un atteggiamento fisico ( mirando ), si trasforma in atteggiamento intellettuale ( io nel pensier mi fingo ), accede alla sensazione ( il cor che si spaura ), determina la comparazione ( vo comparando ), suscita la memoria profonda ( e mi sovvien ),e ritorna alla sfera della percezione soggettiva ( e il naufragar m’è dolce).
In questa vicissitudine del pensiero l’immaginazione svolge una funzione mediatrice tra memoria e intelletto e instaura una modalità gnoseologica del doppio, di cui Leopardi rende testimonianza nella nota 4418 dello Zibaldone in data 30/11/1828:

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose.7

Anche sulla base di questo atteggiamento Luporini parla, nel suo recente saggio, di un Leopardi “filosofo della differenza”.8
L’immaginazione si configura dunque come una capacità combinatoria che mette in relazione elementi in apparenza disaggregati e instaura connessioni ardite, secondo una dote comune del filosofo e del poeta:

Proprietà del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini. [....] Un vigore anche passeggero del corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere dei rapporti fra cose disparatissime, trovare dei paragoni, delle similitudini astrusissime e ingegnosissime. [....] Tutte facoltà del gran poeta, e tutte contenute e derivanti dalla facoltà di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe ec. Or questo è tutto il filosofo: facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare.9

Ma tale sistema gnoseologico relazionale presenta anch’esso, al di là di tutte le differenziazioni concettuali, tonalità kantiane, soprattutto se messo a confronto con quanto Kant aggiunse nella seconda edizione della Critica della ragion pura , a conclusione della sezione riservata alla estetica trascendentale:

Tutto ciò che nella nostra conoscenza appartiene all’intuizione ( esclusi, dunque, il sentimento di piacere e di dolore e il volere, che non sono punto conoscenze ) non contiene altro che semplici rapporti (mia sottolineatura ).[...] Ora con semplici rapporti non si conosce una cosa in sé; è dunque da ritenere che, dal momento che mediante il senso esterno non possono esserci date se non semplici rappresentazioni di rapporti , anch’esso nella sua rappresentazione non possa contenere altro che il rapporto di un oggetto col soggetto, e non l’interno dell’oggetto in se stesso.10

La differenza tra Leopardi e Kant è nella valorizzazione che il poeta fa della teoria patemica, della funzione cioè che svolgono le passioni nel soddisfare le spinte del desiderio, gli slanci della volontà.
D’altronde il punto di partenza del procedimento poetico ha un carattere conativo: si cerca di riempire il nulla che è alle spalle dell’infinito inteso come spazio puro con una esperienza del soggetto, affidando allo sforzo immaginativo il compito di connettere soggettività ed oggettività, tempo della storia e tempo dell’eterno.
Il sempre del primo verso dunque fa riferimento non alla totalità temporale ma alla regolarità della consuetudine comportamentale di chi ama rifugiarsi nella solitudine del paesaggio( il colle e la siepe ) per trovare un rapporto idillico con la natura, secondo i dettami della poetica romantica.
In molti passi dello Zibaldone Leopardi ha parlato della solitudine come condizione indispensabile del pensatore, come stato psico-ambientale nel cui ambito si avvia una diversa tensione epistemologica.
Si leggano le note 4138 e 4139:

Ad ogni filosofo, ma più di tutto al metafisico è bisogno la solitudine.[...]
Quegli al contrario che ha l’abito della solitudine, pochissimo s’interessa, pochissimo è mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di sé cogli uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario moltissimo l’interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono per lui il primo luogo, come per chi vive i più interessanti e quasi soli interessanti rapporti sono quelli cogli uomini; l’interessa la speculazione e cognizion di se stesso come se stesso; degli uomini come parte dell’universo; della natura, del mondo, dell’esistenza.....11

La siepe dunque non permette a Leopardi di vedere, di guardare, è un ostacolo alla visione e dà vita al tema della frontiera, dell’isolamento, suggerito peraltro dal verbo esclude , dalla realtà oggettiva. L’immagine oggettivata viene annullata; nel rapporto io-natura viene eliminato il secondo termine relazionale.
La concezione dell’idillio come condizione euforica del soggetto, garantita nella contemplazione del paesaggio e nella successiva simbiosi con esso, comincia già ad essere contestata. Il ‘locus amoenus’ è tale non perché si realizza la funzione consolatoria del paesaggio ma proprio perché questo esclude la visibilità, il controllo dei sensi sulla natura e permette l’attivazione del procedimento fantastico che è poi alla base della costruzione della teoria delle illusioni.
Il verso 4 è uno dei cardini logico-ermeneutici più importanti della poesia. Attraverso la collocazione di una avversativa in posizione forte ( ad inizio di verso Ma ) Leopardi rivoluziona la teoria poetica delle immagini che fino ad allora aveva caratterizzato la lirica italiana. L’attenzione al paesaggio, la presenza di colli e siepi, magari con l’aggiunta di pecorelle e fontane, erano delle costanti dell’Arcadia settecentesca, ben nota al giovane conte recanatese. Non erano dunque delle novità tematiche leopardiane. L’originalità consiste invece nel fatto che, nonostante il limite della siepe, anzi grazie ad esso, il poeta attiva il processo dinamico dell’immaginario, della capacità di fantasticare. La visione non è più extra-proiettiva ma intra-proiettiva. E’ come se un altro occhio, questa volta interno ai processi mentali dell’uomo e libero dai condizionamenti della percezione dell’oggetto, si mettesse a funzionare.
Attraverso il procedimento contemplativo del fermarsi e osservare con partecipazione, il soggetto poetante ( l’io del poeta collocato ad inizio di verso, ripetuto due versi più tardi, io quello ) modella per immagini nel suo pensiero spazi senza limiti , silenzi che superano qualunque appercezione umana e quiete totale
L’uso del plurale “ spazi e silenzi” aumenta il senso di indeterminatezza e di infinitudine, così come quello dei superlativi “profondissima e sovrumani” accostati all’aggettivo interminati sottolinea la capacità del poeta di accedere ad una dimensione del non-finito, dell’incommensurabile.
Leopardi dimostra che il mirare è una attività ben diversa dal semplice guardare , perché presuppone la partecipazione emotiva, interiore del soggetto che guarda; coerentemente userà moltissime volte questo verbo (“mira queste ruine”, “mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti”, “ Io mirava colei”, “ Sì ch’a mirarla intenerisce il core”, “Mirando il cielo”, “L’aria non mira” ).
Nella seconda parte del v.7 si determina un mutamento di condizione psicologica. Leopardi rompe il procedimento idillico che lo ha portato alla capacità di immaginare l’infinito. La scoperta della potenzialità dell’immaginario è talmente devastante da trasformare lo stato euforico del poeta in ansia e paura. La capacità fantastica della mente umana è così ampia da creare sensazioni di panico. L’idillio iniziale si trasforma in patema per l’accesso agli spazi misteriosi dell’infinito, approdando sulla soglia del nulla. Nello stesso tempo, è proprio la facoltà dell’uomo dell’accedere all’infinito la traccia della sua finitezza, del suo legame in quanto ‘vivente’ e ‘pensante’ alla materia universale esistente.
Da questo punto di vista L’infinito anticipa una sorta di antiantropocentrismo, basato sull’inscindibile legame tra materia e uomo, tra tutto e individuo.
Come ha scritto Francesco Iengo:

Mentre Pascal inferiva la sublimazione dell’uomo dall’avere Dio creato solo lui a propria immagine, Leopardi la inferisce dal paragone con il tutto material-inorganico e cioè non viventepensante ma solo esistente , al quale l’uomo comunque deve ( o per caso o per “errore” ) la sua vita e il suo stesso pensare.12

Questa posizione risulterà qualche anno più tardi ancor più definita. Mi riferisco alle note 3171 e 3172:

Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e la nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza, allora con questo atto e con questo pensiero egli dà maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose.13

Leopardi determina dunque una corrispondenza tra infinito e nulla. Proprio la percezione del nulla attraverso l’immaginazione fa paura, crea quel patema occultato dietro il linguaggio della sua poesia che a sua volta può percepirsi come radicale negatività rispetto al vero ma nello stesso tempo come luogo privilegiato delle illusioni.
E’ interessante rileggere, col filtro delle riflessioni contemporanee sulla filosofia del linguaggio, da Wittgenstein a Lévinas, le dichiarazioni di L. sul rapporto tra alcune parole attinenti alla metafisica e la generatività del linguaggio:

La infinità del nulla.....non esiste né può esistere se non nell’immaginazione o nel linguaggio .14
Niente nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione.15

Ma fondamentale, a chiarimento della impostazione gnoseologica dell’Infinito, risulta la nota dello Zibaldone 4292 del 20/9/27:
Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l’analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che illusione naturale della fantasia .16

L’illusione è appunto determinata dalla frontiera visiva della siepe, dalla mancanza di referenti reali alla percettività dello sguardo.
Se nella prima parte dell’Infinito domina il senso della vista, benché vietata dalla siepe, nella seconda parte prevale la dimensione auditiva. Leopardi ascolta il soffio del vento tra le piante, lo interpreta come segno della vitalità della natura, dello scorrere dell’esistenza, e subito utilizza il processo gnoseologico della comparazione tra la ‘voce’ del vento, del reale vicino, e il ‘silenzio’ di cui aveva avuto kantianamente una appercezione sintetica a priori qualche attimo prima, quando si era lasciato andare alla forza dell’immaginario. Ora l’infinito è collegato al silenzio, in un gioco oppositivo tra suono percepito come traccia esistenziale, come icona del molteplice, e assenza di suono come frantumazione del tempo umano, come vuoto del passato, come nulla, a conferma della linea connettiva tra immaginazione - poesia - infinito - nulla.
La tensione, anche se percepita in ambito concettuale, continua, soprattutto nel confronto tra passato e presente e, a parere di Luporini, rende ansimante lo stesso ritmo di scrittura. L’orizzonte della propria fisicità, del proprio spazio e del proprio tempo, non salva Leopardi dalla consapevolezza che il ciclo naturale di produzione-conservazione-distruzione è ineluttabile.
Dall’atto comparativo L. accede al pensiero dell’eternità della materia, percepita come enigma, poiché il prezzo di questa eternità è la non vita, favorito dal confronto con la dimensione peritura del presente, anch’esso percepito attraverso sensazioni auditive. L’accesso è sollecitato dal riemergere dell’inconscio collettivo, dalle memorie ancestrali dell’idea di eternità: mi sovvien, cioè mi urge dal profondo, dalle zone più occulte e più oscure della mia sensibilità. Non dunque dalla memoria logico-positiva del passato vissuto ma da quella indistinta in cui si accumulano le storie del genere umano.
Significativamente Leopardi accosta pensier a cuore . Critico di fronte a qualunque metafisica che voglia presentarsi come scienza, egli rifiuta l’opposizione cartesiana res extensa /res cogitans . La stessa res cogitans non può essere che extensa a sua volta, il pensiero non è che un’attività della materia come le altre, anche se, essendo di esclusiva pertinenza dell’uomo, in rapporto all’universo degli altri organismi viventi, ne costituisce la miseria specifica ma anche la irrepetibile nobiltà .
In tal modo viene negata la frattura platonica tra soma e pneuma ed è ribadita l’unità organica tra sensazione e concetto, tra appercezione e pensiero.
Su questo punto la nota 4288 ( 18/9/27) risulta di grande evidenza:

..Noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alla varietà e alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perché noi sentiamo corporalmente il pensiero.17

Una volta percepita, oltre all’idea di infinito, anche quella di eterno, Leopardi può concludere il suo cammino gnoseologico. Vinta la paura che per un attimo lo ha sconfortato, compiuto il passaggio dalla vista vietata dell’ermo colle e della siepe all’ascolto del vento, egli trae piacere dall’annegamento ( immagine dell’acqua come caos primitivo, come liquido amniotico che dà la vita ) del pensiero nella immensità del nulla, del solido nulla, frutto della propria immaginazione.
Si completa dunque il processo di astrazione: gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quiete, l’eterno si riassumono nella parola astratta e teorizzante della ‘immensità’, categoria non accessibile agli strumenti logico-razionalisti della conoscenza.
Il “pensier mio” è dunque una ripresa del “io nel pensier mi fingo”. Il risultato ultimo (che è anche una condensazione dinamica dell’azione del pensiero) è quello di perdersi, di naufragare, (e il tema del naufragio da Leopardi in poi verrà spesso utilizzato dai poeti moderni, da Rimbaud a Eliot , fino a Ungaretti ed oltre ) nel mare, inteso come infinito spazio-temporale, della fantasia, dell’illimitato, del mondo della libertà più totale, quello della poesia come grande illusione.

La convivenza degli opposti trama anche sul piano strutturale L’infinito.
Nella dinamica di lettura dell’Infinito si può individuare un movimento in ascesa che parte dal colle e un movimento verso il basso che si completa con la parola mare , simbolo mitico della caduta e del caos. La corrispondenza è sottolineata dal sistema anaforico :“Sempre caro mi fu quest’ermo colle “ - “E il naufragar m’ è dolce in questo mare “, con il mutamento del tempo dal passato al presente.
Parimenti il passaggio dall’io percipiente all’io pensante occupa due blocchi logico -spaziali di uguale ampiezza ( versi 1-8 e versi 8-15 ).
La macrostruttura è definita dal sistema di nuclei isotopici contrapposti:
concreto vs astratto ( il colle/il mare inteso metaforicamente )
spazio vs tempo (immensità/storia)
ascesa vs abisso ( colle-mare)
silenzio vs voce
eterno vs presente
chiuso vs aperto (siepe/io nel pensier mi fingo..interminati, etc.).
A recuperare l’equilibrio dell’insieme interviene il controllo della struttura circolare e complessa del testo.
Ogni concetto espresso in un verso o in segmento di verso è connesso all’altro attraverso la congiunzione. Nell’ Infinito sono presenti dieci ‘e’, collocate tutte nel punto di passaggio da una immagine all’altra . Sono queste a creare un ritmo di lettura rapido e per certi aspetti assillante, insieme all’uso dell’enjambement definito da Blasucci ‘icona della totalità’.
Analogamente l’impulso insiemistico è confermato dal fatto che la dichiarazione di rapporto affettivo del primo verso è espressa al singolare ma attiene a due soggetti: l’ermo colle e la siepe, considerati una unità spazialmente inscindibile.
Convinto assertore di quel tutto che è la materia universale, entro la quale convivono le contraddizioni costitutive dell’esistenza, e di cui le opposizioni strutturali dell’Infinito sono il calco formale, Leopardi ci spiega perché la sua Natura sia sempre, allo stesso tempo, stupenda e orribile : stupenda perché da essa si produce la vita, ma anche orribile perché condizione perché questa vita non si estingua è la morte d’ogni singolo vivente.
Coerentemente ne deriverà la proposta della ginestra che nata sulla aridità inorganica della lava vulcanica continuerà ad offrire il suo profumo e i suoi colori, a testimoniare la sua gratuita necessità di vita, fin quando il Vesuvio non tornerà per legge naturale ad annientarla, a reintegrarla cioè nella totalità della materia.

1 Cfr. W. Iser, L’atto della lettura , Bologna, Il Mulino 1987
2 G. Leopardi, Zibaldone, Milano, Newton Compton 1997, p.366
3 G. Leopardi, op.cit.,p.398, passim
4 G. Leopardi, op.cit.,p.71
5 G. Leopardi , op.cit., p.74
6 I. Kant , Critica della ragion pura , Bari, Laterza 1987, p.67
7 G. Leopardi , Zibaldone , op.cit., p. 928
8 C. Luporini , Decifrare Leopardi , Napoli Macchiaroli 1998
9 G. Leopardi, Zibaldone , op. cit., p. 366
10 I. Kant, Critica della ragion pura, op.cit., p.88
11 G. Leopardi , Zibaldone , op.cit., p.842
12 F. Iengo , Giacomo Leopardi: il nulla e la materia , « Prometeo », anno XVI, n. 63, sett.1998, p.108
13 G. Leopardi, Zibaldone, op.cit., pp.623-624
14 G. Leopardi, op.cit., p. 856
15 G. Leopardi, op.cit., p.855
16 G. Leopardi , op.cit., p.894
17 G. Leopardi , op.cit.,p.893

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