Idillio e patema nell’
Infinito leopardiano
ALFREDO LUZI
Università di Macerata
Ugolino Panichi, Monumento a Giacomo Leopardi, 1898, Recanati: photo by Carlo Raso. fonte Flickr
Nel volume L’atto della lettura,
Wolfgang Iser, studioso illustre della scuola di Costanza, propone
una serie di applicazioni della sua teoria della ricezione che si
rifanno al metodo della Gestalt, in particolare per quanto riguarda
la dinamica tra primo piano e sfondo, essendo il primo reso visibile
dalla rete di corrispondenze di fondo.
Utilizzando questa metodologia nell’analisi del testo più noto di
Leopardi, il lettore registra nell’Infinito leopardiano un
movimento dialettico, un sistema oppositivo tra attrazione e
repulsione, tra idillio e paura, tra piacere e sofferenza, in cui i
termini dell’isotopia positiva sembrano contenere i nuclei della
isotopia negativa.
La testualità del componimento si presenta come un processo
lirico-meditativo di tipo sequenziale , a struttura circolare, che
parte da una dimensione sentimentale per accedere all’immaginazione,
procede verso una fase ermeneutica della propria esperienza
individuale e storica per richiudersi nella definizione di un piacere
sensitivo-intellettuale.Da una parte dunque il commercio coi sensi
fondato sul principio di piacere, spinge l’io alla ricerca della
soddisfazione del desiderio, dall’altra il principio di realtà,
legato alla riflessione razionale, ne mette in evidenza l’illusorietà
e apporta correzioni in negativo alla passione verso la libertà
dell’immaginario e verso il superamento dei limiti del contingente.
Ciò deriva dal fatto che in Leopardi la poesia è sempre sintesi di
meditazione e canto, unità vivente di idea e parola.
Ma la significazione autonoma dell’Infinito acquista un suo
plusvalore se contestualizzata alla teoria poetica elaborata nel
fitto reticolato delle riflessioni dello Zibaldone .
Uno dei nuclei problematici più dibattuti attiene proprio al
rapporto tra poesia e filosofia. Pur essendo un convinto
materialista, Leopardi rifiuta il procedimento epistemologico del
razionalismo analitico-empirico e tende invece ad una forma di
conoscenza naturale, in cui le percezioni sensoriali e l’intelletto
svolgano ognuno il proprio ruolo e collaborino unitariamente a una
sintesi gnoseologica del mondo, secondo la lezione di Condillac e di
Destutt de Tracy . In questa prospettiva, in cui è inclusa una
attitudine linguistica alla genesi della conoscenza, Leopardi
concepisce la poesia come forma della filosofia, unità vivente di
idea e parola, sintesi di meditazione e canto.
Nella nota 1651 dello Zibaldone egli scrive:
Quanto l’immaginazione
contribuisca alla filosofia ( ch’è pur sua nemica ), e quanto sia
vero che il gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere un
gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al
genere da lui professato, e viceversa il filosofo, gran poeta,
osserviamo.
Tale opinione è ribadita, nell’ottobre 1821, quando, nelle note
1834-1836, Leopardi difende il valore dell’esperienza estetica come
elemento portante della funzione epistemologica della ragione in
rapporto alla natura:
Chi non ha o non ha mai avuto
immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, di
illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce
l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha
mai letto o sentito i poeti, non può assolutamente essere un grande,
vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo
dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di
penetrazione scarsa [....] Non già perché il cuore e la fantasia
dicano sovente più vero della fredda ragione, come si afferma, nel
che non entro a discorrere, ma perché la stessa freddissima ragione
ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel
sistema della natura, e svilupparlo. L’analisi delle idee,
dell’uomo, del sistema universale degli esseri, deve
necessariamente cadere in grandissima e principalissima parte, sulla
immaginazione sulle illusioni naturali, sul bello, sulle passioni, su
tutto ciò che v’ha di poetico nell’intero sistema della natura.
[...] La più fredda ragione
benché mortal nemica della natura, non ha altro fondamento né
principio, altro soggetto di meditazione speculazione ed esercizio
che la natura. Chi non conosce la natura, non sa nulla, e non può
ragionare, per ragionevole ch’egli sia. Ora colui che ignora il
poetico della natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi
non conosce assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo
di essere.
Contro l’utopia totalizzante del razionalismo il poeta oppone
l’esigenza di tener conto della complessità sistemica della
ragione tesa a contenere nella sua attività teoretica il caos
vitalistico che caratterizza la dimensione dell’esistente.
Sulla base di un atteggiamento che non rinuncia ad un materialismo di
fondo, anzi lo rafforza nella critica ad ogni ipotesi di geometria
razionalistica e schematizzante della vivente contraddittorietà del
reale, si evince che il
titolo, sintesi perfetta dei contenuti poetici e delle modalità di
accesso ad una avventura intellettuale per via analogica, ( e perciò
strettamente connesso con la sintassi del pensiero poetante ), non
contiene valori mistici e metafisici in prospettiva religiosa, come
ipostasi di una realtà altra, accettata per dottrina e raggiunta
con una sorta di itinerario a Dio.
Il processo dinamico del superamento dei limiti gnoseologici
attraverso un sistema basato sulla introspezione è spiegato nella
nota 171(luglio 1820 ) dello Zibaldone , nella quale è
configurata la struttura portante dell’idillio composto nel 1819:
La cagione è la stessa , cioè
il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista,
lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima
s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe,
quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e
si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per
tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il
piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere
il cielo ec; attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia,
come chiamano.
La percezione dell’infinito attiene invece al campo culturale della
vaghezza, della non misurabilità, dell’incapacità dell’uomo di
sottoporre al controllo della propria ragione tutti gli eventi
esistenziali ed emozionali. Infinito quindi come letteralmente
‘non-finito’, indeterminato, con un accento particolare sulla
ineffabilità, cioè sui limiti del linguaggio umano che non sa
esprimere questo concetto se non usando un termine al negativo.
Nelle note 179-180 dello Zibaldone , il tema dell’infinito
verrà collegato alla tensione dell’uomo verso il piacere e nel
contempo all’idea del nulla:
L’infinità della
inclinazione dell’uomo al piacere è una infinità materiale e non
se ne può dedur nulla di grande o d’infinito in favore dell’anima
umana.[...] Quindi nulla si può dedurre in questo particolare dalla
inclinazione dell’uomo all’infinito, e dal sentimento della
nullità delle cose...
Ciò che colpisce a prima vista, nel testo leopardiano, è quello che
potremmo chiamare l’“impulso insiemistico” di Leopardi.
In 15 versi egli riassume tutta una processualità che parte da una
abitudine affettiva ( “Sempre caro mi fu...” ) per giungere ad
una conclusione in cui emotività e gnoseologia coincidono ( e il
naufragar m’è dolce in questo mare ), sorretta da due isotopie di
base: quella del tempo e quella dello spazio. Alla prima appartengono
i lemmi: “Sempre, fu, eterno, morte stagioni, presente e viva”;
alla seconda :” ermo colle, ultimo orizzonte, interminati spazi,
infinito silenzio, questa immensità, questo mare”. E non a caso
nel testo sono presenti 6 aggettivi dimostrativi di vicinanza
‘questo’; e 2 aggettivi dimostrativi di lontananza ‘quello’,
che hanno una precisa funzione spaziale perché indicano il rapporto
tra l’io del poeta e lo spazio che lo circonda.
Da questa prima analisi risulta dunque che l’asse strutturale su
cui si regge L’infinito è quello dello spazio e del tempo,
categorie che costituiscono il nucleo ispirativo della poesia.
Nel 1780 E. Kant aveva pubblicato La critica della ragion pura.
La seconda edizione è del 1797. In Italia circolò la traduzione
latina di Gottlob Born (1796 ). Nella prima parte dell’opera
intitolata Estetica trascendentale Kant sostiene che “vi
sono due forme pure di intuizione sensibile, come princìpi della
conoscenza a priori, cioè spazio e tempo”.
E sono queste a permetterci di definire i caratteri di un oggetto,
indipendentemente dall’esperienza sensibile, perché assumono la
struttura della forme con le quali conosciamo l’oggetto stesso. Le
teorie kantiane ebbero un grande successo in tutta la cultura europea
del primo ottocento e condizionarono la gnoseologia del secolo,
almeno fino ad Hegel.
Leopardi, a partire dal 16 aprile 1821, cita nello Zibaldone Kant,
collocandolo però tra quei pensatori della ‘dottrina immateriale’
che non hanno portato nessuna profonda novità nella filosofia e,
nello stesso tempo, contestando il suo sistema di pensiero per
eccesso di metafisica.
Sul piano concettuale egli conferma l’impostazione kantiana,
privilegiando le categorie del tempo e dello spazio e collocando in
esse tutto il procedimento gnoseologico che parte da un atteggiamento
fisico ( mirando ), si trasforma in atteggiamento intellettuale ( io
nel pensier mi fingo ), accede alla sensazione ( il cor che si spaura
), determina la comparazione ( vo comparando ), suscita la memoria
profonda ( e mi sovvien ),e ritorna alla sfera della percezione
soggettiva ( e il naufragar m’è dolce).
In questa vicissitudine del pensiero l’immaginazione svolge una
funzione mediatrice tra memoria e intelletto e instaura una modalità
gnoseologica del doppio, di cui Leopardi rende testimonianza nella
nota 4418 dello Zibaldone in data 30/11/1828:
All’uomo sensibile e
immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di
continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo
doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli
orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso
coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna,
udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto
il bello e il piacevole delle cose.
Anche sulla base di questo atteggiamento Luporini parla, nel suo
recente saggio, di un Leopardi “filosofo della differenza”.
L’immaginazione si configura dunque come una capacità combinatoria
che mette in relazione elementi in apparenza disaggregati e instaura
connessioni ardite, secondo una dote comune del filosofo e del poeta:
Proprietà del vero poeta è
la facoltà e la vena delle similitudini. [....] Un vigore anche
passeggero del corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere dei
rapporti fra cose disparatissime, trovare dei paragoni, delle
similitudini astrusissime e ingegnosissime. [....] Tutte facoltà del
gran poeta, e tutte contenute e derivanti dalla facoltà di scoprire
i rapporti delle cose, anche i menomi e più lontani, anche delle
cose che paiono le meno analoghe ec. Or questo è tutto il filosofo:
facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i
particolari, e di generalizzare.
Ma tale sistema gnoseologico relazionale presenta anch’esso, al di
là di tutte le differenziazioni concettuali, tonalità kantiane,
soprattutto se messo a confronto con quanto Kant aggiunse nella
seconda edizione della Critica della ragion pura , a
conclusione della sezione riservata alla estetica trascendentale:
Tutto ciò che nella nostra
conoscenza appartiene all’intuizione ( esclusi, dunque, il
sentimento di piacere e di dolore e il volere, che non sono punto
conoscenze ) non contiene altro che semplici
rapporti (mia
sottolineatura ).[...] Ora con semplici rapporti non si conosce una
cosa in sé; è dunque da ritenere che, dal momento che mediante il
senso esterno non possono esserci date se non semplici
rappresentazioni di rapporti ,
anch’esso nella sua rappresentazione non possa contenere altro che
il rapporto
di un oggetto col soggetto, e non l’interno dell’oggetto in se
stesso.
La differenza tra Leopardi e Kant è nella valorizzazione che il
poeta fa della teoria patemica, della funzione cioè che svolgono le
passioni nel soddisfare le spinte del desiderio, gli slanci della
volontà.
D’altronde il punto di partenza del procedimento poetico ha un
carattere conativo: si cerca di riempire il nulla che è alle spalle
dell’infinito inteso come spazio puro con una esperienza del
soggetto, affidando allo sforzo immaginativo il compito di connettere
soggettività ed oggettività, tempo della storia e tempo
dell’eterno.
Il sempre del primo verso dunque fa riferimento non alla
totalità temporale ma alla regolarità della consuetudine
comportamentale di chi ama rifugiarsi nella solitudine del paesaggio(
il colle e la siepe ) per trovare un rapporto idillico con la natura,
secondo i dettami della poetica romantica.
In molti passi dello Zibaldone Leopardi ha parlato della
solitudine come condizione indispensabile del pensatore, come stato
psico-ambientale nel cui ambito si avvia una diversa tensione
epistemologica.
Si leggano le note 4138 e 4139:
Ad ogni filosofo, ma più di
tutto al metafisico è bisogno la solitudine.[...]
Quegli al contrario che ha
l’abito della solitudine, pochissimo s’interessa, pochissimo è
mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di sé cogli
uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo.
Al contrario moltissimo l’interessano i suoi rapporti col resto
della natura, i quali tengono per lui il primo luogo, come per chi
vive i più interessanti e quasi soli interessanti rapporti sono
quelli cogli uomini; l’interessa la speculazione e cognizion di se
stesso come se stesso; degli uomini come parte dell’universo; della
natura, del mondo, dell’esistenza.....
La siepe dunque non permette a Leopardi di vedere, di guardare, è un
ostacolo alla visione e dà vita al tema della frontiera,
dell’isolamento, suggerito peraltro dal verbo esclude ,
dalla realtà oggettiva. L’immagine oggettivata viene annullata;
nel rapporto io-natura viene eliminato il secondo termine
relazionale.
La concezione dell’idillio come condizione euforica del soggetto,
garantita nella contemplazione del paesaggio e nella successiva
simbiosi con esso, comincia già ad essere contestata. Il ‘locus
amoenus’ è tale non perché si realizza la funzione consolatoria
del paesaggio ma proprio perché questo esclude la visibilità, il
controllo dei sensi sulla natura e permette l’attivazione del
procedimento fantastico che è poi alla base della costruzione della
teoria delle illusioni.
Il verso 4 è uno dei cardini logico-ermeneutici più importanti
della poesia. Attraverso la collocazione di una avversativa in
posizione forte ( ad inizio di verso Ma ) Leopardi
rivoluziona la teoria poetica delle immagini che fino ad allora aveva
caratterizzato la lirica italiana. L’attenzione al paesaggio, la
presenza di colli e siepi, magari con l’aggiunta di pecorelle e
fontane, erano delle costanti dell’Arcadia settecentesca, ben nota
al giovane conte recanatese. Non erano dunque delle novità tematiche
leopardiane. L’originalità consiste invece nel fatto che,
nonostante il limite della siepe, anzi grazie ad esso, il poeta
attiva il processo dinamico dell’immaginario, della capacità di
fantasticare. La visione non è più extra-proiettiva ma
intra-proiettiva. E’ come se un altro occhio, questa volta interno
ai processi mentali dell’uomo e libero dai condizionamenti della
percezione dell’oggetto, si mettesse a funzionare.
Attraverso il procedimento contemplativo del fermarsi e osservare
con partecipazione, il soggetto poetante ( l’io del poeta collocato
ad inizio di verso, ripetuto due versi più tardi, io quello )
modella per immagini nel suo pensiero spazi senza limiti , silenzi
che superano qualunque appercezione umana e quiete totale
L’uso del plurale “ spazi e silenzi” aumenta il senso di
indeterminatezza e di infinitudine, così come quello dei superlativi
“profondissima e sovrumani” accostati all’aggettivo interminati
sottolinea la capacità del poeta di accedere ad una dimensione del
non-finito, dell’incommensurabile.
Leopardi dimostra che il mirare è una attività ben
diversa dal semplice guardare , perché presuppone la
partecipazione emotiva, interiore del soggetto che guarda;
coerentemente userà moltissime volte questo verbo (“mira queste
ruine”, “mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti”, “
Io mirava colei”, “ Sì ch’a mirarla intenerisce il core”,
“Mirando il cielo”, “L’aria non mira” ).
Nella seconda parte del v.7 si determina un mutamento di condizione
psicologica. Leopardi rompe il procedimento idillico che lo ha
portato alla capacità di immaginare l’infinito. La scoperta della
potenzialità dell’immaginario è talmente devastante da
trasformare lo stato euforico del poeta in ansia e paura. La
capacità fantastica della mente umana è così ampia da creare
sensazioni di panico. L’idillio iniziale si trasforma in patema per
l’accesso agli spazi misteriosi dell’infinito, approdando sulla
soglia del nulla. Nello stesso tempo, è proprio la facoltà
dell’uomo dell’accedere all’infinito la traccia della sua
finitezza, del suo legame in quanto ‘vivente’ e ‘pensante’
alla materia universale esistente.
Da questo punto di vista L’infinito anticipa una sorta di
antiantropocentrismo, basato sull’inscindibile legame tra materia e
uomo, tra tutto e individuo.
Come ha scritto Francesco Iengo:
Mentre Pascal inferiva la
sublimazione
dell’uomo dall’avere Dio creato solo lui a propria immagine,
Leopardi la inferisce dal paragone con il tutto material-inorganico
e cioè non vivente
né pensante
ma solo esistente ,
al quale l’uomo comunque deve ( o per caso o per “errore” ) la
sua vita
e il suo stesso pensare.
Questa posizione risulterà qualche anno più tardi ancor più
definita. Mi riferisco alle note 3171 e 3172:
Niuna cosa maggiormente
dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né
l’altezza e la nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo
conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua
piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si
sente infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno
degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa
considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente
sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla,
e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e
si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza,
allora con questo atto e con questo pensiero egli dà maggior prova
possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità
della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere,
è potuta pervenire a conoscere e intender cose superiori alla natura
di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità
medesima della esistenza e delle cose.
Leopardi determina dunque una corrispondenza tra infinito e
nulla. Proprio la percezione del nulla attraverso
l’immaginazione fa paura, crea quel patema occultato dietro il
linguaggio della sua poesia che a sua volta può percepirsi come
radicale negatività rispetto al vero ma nello stesso tempo come
luogo privilegiato delle illusioni.
E’ interessante rileggere, col filtro delle riflessioni
contemporanee sulla filosofia del linguaggio, da Wittgenstein a
Lévinas, le dichiarazioni di L. sul rapporto tra alcune parole
attinenti alla metafisica e la generatività del linguaggio:
La infinità del nulla.....non
esiste né può esistere se non nell’immaginazione o nel linguaggio
.
Niente nella natura annunzia
l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è
un parto della nostra immaginazione.
Ma fondamentale, a chiarimento della impostazione gnoseologica
dell’Infinito, risulta la nota dello Zibaldone 4292
del 20/9/27:
Il credere l’universo
infinito, è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non
dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si
abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo
dagli argomenti metafisici, io credo che l’analogia materialmente
faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che
illusione naturale della fantasia .
L’illusione è appunto determinata dalla frontiera visiva della
siepe, dalla mancanza di referenti reali alla percettività dello
sguardo.
Se nella prima parte dell’Infinito domina il senso della
vista, benché vietata dalla siepe, nella seconda parte prevale la
dimensione auditiva. Leopardi ascolta il soffio del vento tra le
piante, lo interpreta come segno della vitalità della natura, dello
scorrere dell’esistenza, e subito utilizza il processo gnoseologico
della comparazione tra la ‘voce’ del vento, del reale vicino, e
il ‘silenzio’ di cui aveva avuto kantianamente una appercezione
sintetica a priori qualche attimo prima, quando si era lasciato
andare alla forza dell’immaginario. Ora l’infinito è collegato
al silenzio, in un gioco oppositivo tra suono percepito come traccia
esistenziale, come icona del molteplice, e assenza di suono come
frantumazione del tempo umano, come vuoto del passato, come nulla, a
conferma della linea connettiva tra immaginazione - poesia - infinito
- nulla.
La tensione, anche se percepita in ambito concettuale, continua,
soprattutto nel confronto tra passato e presente e, a parere di
Luporini, rende ansimante lo stesso ritmo di scrittura. L’orizzonte
della propria fisicità, del proprio spazio e del proprio tempo, non
salva Leopardi dalla consapevolezza che il ciclo naturale di
produzione-conservazione-distruzione è ineluttabile.
Dall’atto comparativo L. accede al pensiero dell’eternità della
materia, percepita come enigma, poiché il prezzo di questa eternità
è la non vita, favorito dal confronto con la dimensione peritura del
presente, anch’esso percepito attraverso sensazioni auditive.
L’accesso è sollecitato dal riemergere dell’inconscio
collettivo, dalle memorie ancestrali dell’idea di eternità: mi
sovvien, cioè mi urge dal profondo, dalle zone più occulte e
più oscure della mia sensibilità. Non dunque dalla memoria
logico-positiva del passato vissuto ma da quella indistinta in cui si
accumulano le storie del genere umano.
Significativamente Leopardi accosta pensier a cuore .
Critico di fronte a qualunque metafisica che voglia presentarsi come
scienza, egli rifiuta l’opposizione cartesiana res extensa /res
cogitans . La stessa res cogitans non può essere che
extensa a sua volta, il pensiero non è che un’attività
della materia come le altre, anche se, essendo di esclusiva
pertinenza dell’uomo, in rapporto all’universo degli altri
organismi viventi, ne costituisce la miseria specifica ma anche la
irrepetibile nobiltà .
In tal modo viene negata la frattura platonica tra soma e
pneuma ed è ribadita l’unità organica tra sensazione e
concetto, tra appercezione e pensiero.
Su questo punto la nota 4288 ( 18/9/27) risulta di grande evidenza:
..Noi veggiamo che le
modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni,
dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in
tutto alla varietà e alle variazioni del nostro corpo. Un fatto,
perché noi sentiamo corporalmente il pensiero.
Una volta percepita, oltre all’idea di infinito, anche quella di
eterno, Leopardi può concludere il suo cammino gnoseologico. Vinta
la paura che per un attimo lo ha sconfortato, compiuto il passaggio
dalla vista vietata dell’ermo colle e della siepe all’ascolto del
vento, egli trae piacere dall’annegamento ( immagine dell’acqua
come caos primitivo, come liquido amniotico che dà la vita ) del
pensiero nella immensità del nulla, del solido nulla, frutto della
propria immaginazione.
Si completa dunque il processo di astrazione: gli interminati spazi,
i sovrumani silenzi, la profondissima quiete, l’eterno si
riassumono nella parola astratta e teorizzante della ‘immensità’,
categoria non accessibile agli strumenti logico-razionalisti della
conoscenza.
Il “pensier mio” è dunque una ripresa del “io nel pensier mi
fingo”. Il risultato ultimo (che è anche una condensazione
dinamica dell’azione del pensiero) è quello di perdersi, di
naufragare, (e il tema del naufragio da Leopardi in poi verrà spesso
utilizzato dai poeti moderni, da Rimbaud a Eliot , fino a Ungaretti
ed oltre ) nel mare, inteso come infinito spazio-temporale, della
fantasia, dell’illimitato, del mondo della libertà più totale,
quello della poesia come grande illusione.
La convivenza degli opposti trama anche sul piano strutturale
L’infinito.
Nella dinamica di lettura dell’Infinito si può individuare
un movimento in ascesa che parte dal colle e un movimento
verso il basso che si completa con la parola mare , simbolo
mitico della caduta e del caos. La corrispondenza è sottolineata dal
sistema anaforico :“Sempre caro mi fu quest’ermo colle “
- “E il naufragar m’ è dolce in questo mare “, con il
mutamento del tempo dal passato al presente.
Parimenti il passaggio dall’io percipiente all’io pensante
occupa due blocchi logico -spaziali di uguale ampiezza ( versi 1-8 e
versi 8-15 ).
La macrostruttura è definita dal sistema di nuclei isotopici
contrapposti:
concreto vs astratto ( il colle/il mare inteso metaforicamente )
spazio vs tempo (immensità/storia)
ascesa vs abisso ( colle-mare)
silenzio vs voce
eterno vs presente
chiuso vs aperto (siepe/io nel pensier mi fingo..interminati, etc.).
A recuperare l’equilibrio dell’insieme interviene il controllo
della struttura circolare e complessa del testo.
Ogni concetto espresso in un verso o in segmento di verso è connesso
all’altro attraverso la congiunzione. Nell’ Infinito sono
presenti dieci ‘e’, collocate tutte nel punto di passaggio da una
immagine all’altra . Sono queste a creare un ritmo di lettura
rapido e per certi aspetti assillante, insieme all’uso
dell’enjambement definito da Blasucci ‘icona della totalità’.
Analogamente l’impulso insiemistico è confermato dal fatto che la
dichiarazione di rapporto affettivo del primo verso è espressa al
singolare ma attiene a due soggetti: l’ermo colle e la siepe,
considerati una unità spazialmente inscindibile.
Convinto assertore di quel tutto che è la materia universale, entro
la quale convivono le contraddizioni costitutive dell’esistenza, e
di cui le opposizioni strutturali dell’Infinito sono il
calco formale, Leopardi ci spiega perché la sua Natura sia
sempre, allo stesso tempo, stupenda e orribile :
stupenda perché da essa si produce la vita, ma anche orribile perché
condizione perché questa vita non si estingua è la morte d’ogni
singolo vivente.
Coerentemente ne deriverà la proposta della ginestra che nata sulla
aridità inorganica della lava vulcanica continuerà ad offrire il
suo profumo e i suoi colori, a testimoniare la sua gratuita necessità
di vita, fin quando il Vesuvio non tornerà per legge naturale ad
annientarla, a reintegrarla cioè nella
totalità della materia.